IL PARADIGMA SISTEMICO 


Questa sezione comprende i seguenti capitoli:

  1. TEORIA GENERALE DEI SISTEMI, COMPLESSITA' E OLISMO

  2. SISTEMI, COMPLESSITA', CAOS E COSCIENZA

 


TEORIA GENERALE DEI SISTEMI, COMPLESSITA' E OLISMO


di Enrico Cheli

 

Come abbiamo visto nella introduzione a questo stesso campo, negli ultimi decenni si è fatta sempre più pressante l'esigenza di superare la frammentazione e la separazione derivante dal meccanicismo-riduzionismo e di ridare la giusta attenzione all'intero, alla globalità di ogni oggetto o processo che si intende sottoporre ad indagine scientifica.

Uno dei modelli emergenti più significativi sul versante della visione olistica è senz'altro quello sistemico-cibernetico, nato dall'incontro tra la Teoria generale dei sistemi (Bertalannfy L. Von, 1971) e la cibernetica (Ashby W. R., 1971; Wiener N., 1966). Tali modelli teorici furono delineati pressoché in contemporanea tra la fine degli anni 1940 e l’inizio dei ’50 e vi fu tra di loro un ricco interscambio, grazie anche ad un lungimirante ciclo di convegni (le ormai storiche Macy Conferences) che consentirono a molti studiosi di incontrarsi e confrontarsi sull'esigenza di una nuova visione della realtà e della scienza.

In questo saggio illustreremo per sommi capi gli aspetti principali del suddetto modello, precisando sin d'ora che non avremo alcuna pretesa di esaustività né di ricostruzione storica del pensiero sistemico-cibernetico, ma procederemo al solo scopo di focalizzarne lo spirito di fondo e i concetti principali (per maggiori dettagli si rinvia a Laszlo E., 1972 e 1996 e a Capra F;. 1996).

Per prima cosa va osservato che il modello sistemico-cibernetico è in grado, entro certi limiti, di conciliare e integrare riduzionismo e olismo, frammentazione e globalità, partendo dalla stessa visione oggettuale-corpuscolare della scienza dominante, ma tentando di superarne i limiti attraverso il concetto di interdipendenza. Grazie al forte radicamento nella visione oggettuale, tale modello riesce ad esprimere in un linguaggio più vicino a quello scientifico tradizionale ciò che in passato e in altre culture veniva comunicato mediante miti, simboli, immagini mistiche etc. (per gli aspetti storici si rinvia a Laszlo E., 1972 e 1995 e a Capra F., 1997). Come vedremo, non è un modello strettamente olistico — poiché altrimenti dovrebbe incentrarsi sui processi e non sugli oggetti — ma non è neppure un modello meramente meccanicistico-riduzionista; piuttosto si pone a cavallo tra le due modalità conoscitive (corpuscolare e ondulatoria, riduzionistica e olistica) creando un ponte che potrebbe permettere — almeno in teoria — un dialogo tra riduzionismo e olismo, frammentazione e globalità, in quanto parte dalla stessa visione oggettuale-corpuscolare della scienza dominante, ma tenta poi di superarne i limiti attraverso i concetti di interdipendenza, feedback, autoorganizzazione.

Diciamo "in teoria" poiché nella pratica le cose sono andate un po' diversamente, in quanto un dialogo deve essere paritetico per poter portare ad una reale sintesi, mentre, come si è visto, la metà olistico-ondulatoria, la visione processuale della realtà, è poco più che allo stadio embrionale nella scienza e cultura occidentali, laddove l'altra metà dispone invece di secoli di tradizione, di dati, di risultati e quindi di legittimazione. Così è avvenuto che, gettando un ponte tra una territorio già molto strutturato, seppur in crisi, e un territorio ancora incerto e debole, non c'è stato vero dialogo e il modello sistemico-cibernetico si è un po' sbilanciato verso la riva più solida, più materialistica, tant'è che è stato adottato soprattutto in ambiti tipicamente "hardware" quali l'ingegneria, l'elettronica e l'informatica, che ne hanno colto solo o prevalentemente gli aspetti strumentali, evitando di svilupparne le implicazioni epistemologiche. Per contro, ha trovato finora poche adesioni nell'ambito delle scienze biomediche, umane e sociali, dove invece era ben più evidente la necessità di pervenire ad una sintesi delle frammentazioni e ad una visione globale dell'essere umano e dei suoi rapporti con i sistemi socioculturali.

Ciò è dovuto a vari motivi, tra cui anche il fatto che i modelli sistemico-cibernetici della prima generazione erano fortemente materialisti e oggettualisti e solo in seguito è stata proposta da alcuni autori una concezione alternativa della cibernetica incentrata non più sul solo livello mentale ma anche su quello della coscienza e della autocoscienza. Tale concezione è rimasta tuttavia minoritaria, in quanto va a mettere in discussione uno dei "dogmi" della scienza moderna: quella impostazione eminentemente materialista sancita dalla dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa.

La cibernetica è la scienza che ha caratterizzato la fantastica rivoluzione tecnologica del nostro tempo: l'era dei computers, delle macchine digitali, della realtà virtuale (...) E' la cibernetica che, con Internet e le reti informatiche planetarie, ha inaugurato la libera cultura planetaria delle informazioni, che vari autori hanno rinominato cybercultura. E tuttavia la cibernetica, come tutte le scienze moderne, nasce senz’anima. I fondatori della cibernetica dichiararono esplicitamente che il loro scopo era quello di studiare le informazioni e la loro trasmissione, non il loro senso. Henry Margenau e molti pensatori, per contro, sostengono che ogni informazione implica la coscienza, che l'informazione senza la coscienza è un non senso (...)

Cibernetica nasce dalla radice sanscrita Kubera, il timone; seguendo le migrazioni ariane, questa radice diventa in Grecia Kubernetes o Kybernetes: il timoniere e, per estensione, in un paese di navigatori e isole, Kybernao: l’arte di dirigere e di governare, da cui il latino Gubernator, il governatore.

Abbiamo un verbo, "governare", e dei complementi oggetto, le informazioni; ma chi è il soggetto che governa le informazioni e le conosce? Chi, in ogni organismo vivente, riceve l’intera massa delle informazioni sullo stato interno ed esterno, ne comprenderne il significato globale e decide le azioni e le strategie? Alla cibernetica manca totalmente il concetto di "Soggetto della Conoscenza" (...) la coscienza individuale che percepisce le informazioni in modo globale, ne intuisce e comprende il senso, le elabora e le utilizza in modo intelligente, decidendo così la direzione e il senso della sua stessa vita. L’unità di informazione dei sistemi viventi complessi implica l’unità di coscienza.

Ogni Cyber vive esperienze uniche e le memorizza in sé come informazioni, accumulando conoscenza (...) Così un essere umano evolvendosi diventa dapprima cosciente di sé e successivamente realizza che la propria coscienza é la coscienza dell'esistenza stessa. L'evoluzione della vita diventa così l'evoluzione della conoscenza e della coscienza stessa (N. Monteucco, 2000: 142-3).

Sulla base delle suddette considerazioni, non ci limiteremo ad una esposizione pedissequa dei principi sistemico-cibernetici, ma li rielaboreremo sotto vari aspetti, presentandoli in una luce talvolta diversa rispetto ad altri autori più "ortodossi".

Prima di iniziare un'ultima premessa: una delle peculiarità più notevoli del modello sistemico-cibernetico consiste nella sua generalità e duttilità, nell’essere cioè applicabile sia ai fenomeni fisico-chimici che a quelli biologici e psico-socio-culturali; non vogliamo venir meno ad un merito così raro e prezioso, e pertanto anche noi cercheremo di mantenere la trattazione il più possibile sulle generali, riferendoci ai sistemi senza distinguere più di tanto tra sistemi biologici, sociali, culturali, mentali o di altro tipo, anche se la formazione di chi scrive e l'argomento del libro ci porteranno a trarre esempi soprattutto dal campo delle scienze umane e sociali.

 

Dalla causalità lineare alla circolarità

Come si è visto in precedenza, il metodo meccanicistico-riduzionista vede la realtà fenomenica come un insieme di rapporti lineari tra cause (variabili indipendenti) ed effetti (variabili dipendenti), distinguendo nettamente le prime dai secondi. Le cause sono sempre cronologicamente antecedenti gli effetti e la loro relazione può essere rappresentata geometricamente su un sistema di assi cartesiani come una semiretta o una curva aperta, che evidenziano come l'influenza proceda sempre in una e una sola direzione, cioè dalla causa all'effetto.

Nella concezione sistemica invece questa distinzione rigida tra variabili indipendenti e dipendenti viene a cadere, poiché, come sostiene il principio di interdipendenza, ogni rapporto di influenza è sempre reciproco e quindi, se una certa variabile ne influenza un'altra, anche quest'ultima, in qualche modo e su qualche piano, influenza la prima.

L'idea di una rigida distinzione tra cause ed effetti e di una relazione lineare tra di loro può essere fatta risalire per molti versi ai miti della creazione, in cui una causa prima (Dio) genera dal nulla il cosmo: come può ciò che è stato creato (l'effetto) influenzare il creatore (la causa)?

L'antico sistema geocentrico, con la Terra immobile e i corpi celesti orbitanti attorno ad essa riflette ulteriormente questa idea che l'influenza fluisca solo in una direzione, dal maggiore al minore, dal più potente al più debole (e qui potremmo fare interessanti riferimenti ai sistemi sociali del passato e all'autorità assoluta del sovrano).

Neppure Copernico, che pure ebbe il merito di scardinare il modello geocentrico, seppe liberarsi dall'idea di un "centro assoluto", seppure attribuito al Sole e non più alla Terra. Fu Keplero, per primo, a scoprire che le orbite planetarie sono ellittiche e non circolari e questo gli causò non pochi timori e perplessità poiché si rese conto delle profonde implicazioni che ciò poteva avere a livello religioso ed anche temporale. Rifece più volte i calcoli e solo dopo molto tempo riuscì ad accettare l'evidenza.

Dovremo tuttavia arrivare a Newton per esplicitare le implicazioni causali connesse alla ellitticità delle orbite: Newton, come è noto, formulò la legge di gravitazione universale in termini di attrazione reciproca tra corpi; in nessun caso un corpo è dipendente ed un altro indipendente; se si dà una qualche influenza, essa non può che essere reciproca, interdipendente appunto (per quanto, naturalmente, essa possa avere sui singoli corpi intensità relativa e forma diverse) e questa interdipendenza è ben visibile nella ellitticità delle orbite dei pianeti attorno al sole. L'ellisse, a differenza del cerchio, non ha un solo centro bensì due, denominati "fuochi", il che esprime in forma manifesta il fatto di essere il prodotto di due soggetti interagenti e non di un soggetto centrale, immobile e attivo e di uno periferico, del tutto passivo e dipendente .

Nonostante siano trascorsi alcuni secoli dai tempi di Newton, il modello causale unidirezionale ha continuato a dominare la scena, come se il principio di reciprocità fosse una eccezione, valida limitatamente al campo della gravitazione, mentre in tutti gli altri aspetti l'universo continuasse ad essere regolato dagli antichi principi assolutistici.

Solo da pochi decenni ci si sta rendendo conto che l'importanza di queste considerazioni va molto oltre l'ambito della geometria, dell'astronomia e della fisica e che è necessario riconsiderare alla radice l'intero concetto di "causalità", uscendo dalla antica e statica concezione unidirezionale ad assumendo invece una prospettiva di reciprocità o interdipendenza in tutti i campi della scienza, dalla fisica alla biologia alle scienze umane e sociali.

 

Totalità, interdipendenza, organizzazione

Il concetto di "sistema" nasce proprio dal riconoscimento della interdipendenza globale: difatti si definisce sistema un insieme di oggetti tra loro interdipendenti, vale a dire tali che una variazione nello stato di uno di essi tende sempre a riflettersi sugli altri e sul sistema nella sua totalità; analogamente, un cambiamento nel sistema tende ad influenzare le parti componenti, (ed anche i sistemi-ambiente in cui esso è a sua volta inserito, come vedremo più oltre). Tale influenza non è sempre facilmente percepibile dall’osservatore, e può richiedere un certo tempo per manifestarsi, magari su piani e aspetti anche molto diversi e distanti da quelli originari. Essa inoltre non segue percorsi di tipo lineare, non si esaurisce nel processo di influenza univoco parte —> altre parti oppure parte —> sistema globale, ma dà vita piuttosto ad un processo circolare in cui il mutamento della parte modifica il sistema globale che a sua volta rimodifica la parte, fino a che il sistema non si stabilizza, grazie ai meccanismi omeostatici di cui è dotato e che tratteremo in un paragrafo successivo. Inoltre è intrinseco al concetto di sistema il fatto che esso non "agisca" mai come un semplice agglomerato di elementi separati e indipendenti, ma piuttosto come una totalità i cui componenti sono interconnessi in un’unica rete di relazioni che opera a molteplici livelli; appare pertanto evidente che ogni insieme di oggetti in cui una variazione dello stato di uno di essi non si rifletta sugli altri e sull’insieme stesso non é considerabile un sistema.

Dunque, le due caratteristiche prime di un sistema sono l'interdipendenza e la totalità; tuttavia, come sostiene E. Morin (1983: 131) "non basta invero l’associazione fra interrelazione e totalità, bisogna legare la totalità all’interrelazione tramite l’idea di organizzazione. Detto altrimenti, le interrelazioni tra elementi, eventi o individui, quando hanno un carattere regolare o stabile, diventano organizzazionali e costituiscono una "fornace". Si può quindi concepire il sistema come unità globale organizzata di interrelazioni fra elementi, azioni o individui". Un gruppo di persone che si incontrano casualmente per strada, o una folla, pur essendo in qualche modo in relazione tra loro, non sono propriamente un sistema, semmai un sistema allo stato potenziale, embrionale. Una squadra di calcio, una famiglia o una equipe di ricerca – in quanto dotate di una loro organizzazione interna, spontanea o formale che sia — rappresentano invece dei sistemi a tutti gli effetti.

L’organizzazione sembra quindi rappresentare il principio essenziale di un sistema, la struttura che connette in modo interdipendente gli elementi che lo costituiscono, che "garantisce una solidarietà e una solidità relativa a tali legami e garantisce quindi al sistema una certa durata, nonostante le perturbazioni aleatorie. L’organizzazione dunque: trasforma, produce, connette, mantiene " (ibi, 133).

Interdipendenza e organizzazione rinviano necessariamente alla comunicazione: esse infatti si attuano grazie a processi di scambio di materiali, energia o informazione, che rappresentano i "mezzi" mediante i quali ciò che avviene ad un membro di un sistema può influenzarne un’altro. Man mano che dai sistemi inanimati si passa a quelli biologici e ancor più a quelli umani, cresce l’importanza del livello informazionale rispetto a quello energetico o materiale. E questo è uno dei motivi per cui la meccanica — che è mero scambio di materia e energia — non appare adeguata a descrivere la dinamica dei sistemi complessi, e in particolare di quelli biologici, psicologici e sociali. Quando si studia l’interazione tra corpi inanimati, si osservano in genere scambi di massa/energia: una palla da biliardo che ne urta un’altra trasmette ad essa parte della propria energia cinetica ed è quindi considerabile causa unica del suo spostamento: la seconda palla cioè, non si sarebbe mossa senza lo "stimolo" ricevuto dalla prima e trae l’energia per muoversi e la direzione del movimento interamente dalla palla urtante. Ma se un uomo urta un altro uomo, la reazione del secondo non dipende tanto dall’energia trasmessa dall’urto, ma dal significato che ad esso viene attribuito da chi lo riceve e dalle credenze che egli ha riguardo ai modi più appropriati di reagirvi; in altri termini, nell’interazione umana (e più in generale in quella tra esseri viventi) l'interdipendenza si manifesta primariamente come passaggio di informazione più che di materia o di energia.

Negli eventi della vita (a differenza di quelli tra oggetti inanimati) vi sono di solito due sistemi energetici interdipendenti: uno è il sistema che usa la propria energia per aprire o chiudere il rubinetto o la porta o il relé; l’altro è il sistema la cui energia "scorre attraverso" il rubinetto o la porta quando sono aperti.

La posizione ACCESO dell’interruttore è una via di passaggio per energia che ha origine altrove. Quando apro il rubinetto, non è il lavoro che compio nell’aprirlo che spinge o attira il flusso dell’acqua. Questo lavoro è compiuto dalle pompe o dalla gravità, la cui forza viene liberata dall’apertura del rubinetto. (...) Io stabilisco in parte quali percorsi l’acqua seguirà qualora essa fluisca. Che fluisca non è di mia diretta competenza (G. Bateson, 1984: 139, tra par. ns.).

Quanto detto rinvia ad un altro principio di grande importanza epistemologica: quello della non-sommatività degli elementi di un sistema; ciò significa che il comportamento di un sistema non è spiegabile con la semplice somma degli elementi che lo costituiscono. Un aspetto, questo, che ha molteplici implicazioni, una delle quali è che le parti componenti un sistema rivelano entro di esso caratteristiche peculiari, che in stato di isolamento possono non emergere affatto, pur essendo presenti a livello virtuale. L’uomo, ad esempio, può realizzare tutta una serie di potenzialità solo vivendo all’interno di un sistema socioculturale, interagendo con altri individui e simboli secondo certi principi organizzazionali. Se vivesse in modo solitario, isolato, non avrebbe possibilità di esplorare quella parte delle sue potenzialità e trarne comprensione e soddisfazione. Più in generale, il principio della non sommatività mette profondamente in crisi il metodo della variazione unitaria dei fattori su cui si basa il paradigma dominante, aspetto questo su cui torneremo in seguito.

 

Rapporti tra sistemi ed embedding: il modello "matrioska

Una delle proprietà fondamentali dei sistemi naturali (cioè non costruiti in laboratorio) siano essi colonie di batteri, animali, mercati monetari o persone che comunicano con altre persone, è quella di modificare il proprio stato sia in funzione di stimoli interni al sistema (ad es: il comportamento di un singolo componente) sia a seguito di influenze esterne: un sistema non esiste nel vuoto ma è sempre inserito in un ambiente (fisico, sociale, culturale etc.) che interagisce con esso, influenzandolo. "L’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema, e (viceversa) anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema" (Hall A. D. e Fagen, R. E. 1956, pag. 20; tra parentesi ns.). Naturalmente, distinguere tra "ambiente" e "sistema" va inteso come puro espediente analitico, giacché essi sono in realtà un tutto indivisibile, un "campo", come lo definiva K. Lewin (1935), e pertanto, al di là della distinzione concettuale, gli eventi ai livelli microcosmico e macrocosmico si influenzano reciprocamente e sono in realtà una cosa sola, un unico sistema.

Oltre ad essere parte di sistemi-ambiente o sovra-sistemi, ogni sistema può essere costituito da "oggetti" più piccoli che sono a loro volta dei sistemi, cioè dei sotto-sistemi rispetto ad esso. Ne consegue una organizzazione intersistemica che ricorda le matrioske russe, quelle bambole di legno incastonate una nell'altra. Per fare un esempio, un sistema sociale quale un gruppo di amici, ha come sistemi-ambiente (a livelli diversi) la comunità di appartenenza, la eventuale religione di riferimento dei suoi membri, fino ad arrivare alla nazione ed oltre; esso è poi a sua volta costituito da sottogruppi e singoli individui, che ne sono i sottosistemi.

In campo sociale vi è stata la tendenza ad interpretare i rapporti gerarchici tra sistemi sovraordinati e subordinati in modo piramidale, attribuendo ai primi assoluta priorità e ai secondi totale e passiva subordinazione. In realtà le cose non stanno rigidamente così: i sistemi regolano i propri comportamenti in funzione dei propri scopi e in genere, nei sistemi biologici, i livelli sovraordinati e sottoordinati condividono gli stessi scopi e ciò che è vantaggioso per l'organismo lo è anche per le parti componenti, cosa del resto nota già nell'antichità e ben esplicitata dall'apologo sulla controversia tra lo stomaco e le altre membra del corpo che il console romano Menenio Agrippa utilizzò nel 494 ca. a. C. per placare la rivolta della plebe arroccata sull'Aventino. Tuttavia, nei sistemi sociali umani non è automatico che ciò che è vantaggioso per la società lo sia anche per i gruppi e gli individui che la compongono: al contrario, si è dato e si dà assai spesso il caso che coloro che occupano i vertici della gerarchia e decidono i comportamenti dei sistemi sovraordinati (le istituzioni, le tribù, gli stati) perseguano finalità del tutto egoistiche che non tornano a vantaggio dei livelli subordinati ma anzi a loro totale svantaggio: si pensi allo sfruttamento delle classi inferiori, alle guerre in cui migliaia o milioni di individui sono stati mandati a morire per le brame o le pazzie di pochi etc.

Pertanto la metafora di Menenio Agrippa e più in generale il modello organicista, ripreso in tempi più recenti da vari studiosi, come ad esempio il sociologo Herbert Spencer alla fine del XIX secolo, non si può applicare tout court ai rapporti tra i diversi livelli della società, e rappresenta semmai lo stato ideale, non quello reale. Inoltre, anche nel mondo biologico i livelli di qualsivoglia sistema non sono necessariamente disposti secondo un ordine lineare e gerarchico, in cui potere e importanza crescono dal basso verso l’alto. Al contrario essi si organizzano circolarmente, in un rapporto paritetico in cui gli obiettivi perseguiti dal sistema sono positivi per tutti i suoi livelli e non solo per alcuni. In apparenza può anche esservi una gerarchia, ma essa non è mai imposta, è sempre cooperativa, autoorganizzata, autoregolata da un flusso continuo di comunicazione (o feedback) tra le singole parti e l'organismo. Solo l'essere umano ha la possibilità di ignorare o interrompere tale flusso, privilegiando alcune parti a scapito di altre: l'individuo può ignorare i segnali che alcune parti/organi del suo corpo gli mandano e continuare a comportarsi in modi che nuocciono a tali parti (ad es: mangiare cibi impropri o fumare o assumere droghe); parimenti, un sistema sociale come ad es. uno stato può ignorare i segnali di malcontento che gli individui e i gruppi componenti gli inviano e intraprendere comunque atti nocivi a tali parti. Ciò però comporta gravi conseguenze il cui nome più comune è: malattie. L'individuo che non si preoccupa dell'armonia tra gli scopi della personalità e le esigenze del corpo e del "cuore" si ammala, e lo stesso accade al sistema sociale quando non armonizza gli obbiettivi dei vertici con quelli dei suoi sottosistemi componenti. Naturalmente, nelle sue forme esteriori la malattia dell'individuo è ben diversa dalla malattia della società, ma l'origine è simile: una disarmonia tra le diverse esigenze dei diversi livelli sistemici che genera un conflitto tra tali livelli o parti. E il punto è che, una volta instaurata la malattia, essa si riflette inevitabilmente anche sui vertici e non soltanto sui livelli subordinati.

 

Equifinalità

Come si è visto, i sistemi agiscono in funzione delle proprie finalità o scopi. Il principio di equifinalità stabilisce che uno stesso scopo può essere perseguito in modi diversi e partendo da basi diverse. Quanto più un sistema è adattivo e flessibile, tanto maggiori saranno le strade percorribili per giungere alla stessa meta. Ne consegue anche che uno stesso punto di arrivo può essere il frutto di scopi diversi, pertanto, nell'interpretare l'agire di una persona o di un sistema sociale dobbiamo procedere con cautela e avere la consapevolezza che uno stesso comportamento messo in atto da due persone (o sistemi sociali) può avere motivazioni anche molto diverse. Inoltre, lo stato di un sistema aperto è (relativamente) indipendente dal suo stato iniziale; ne consegue, come sostengono Watzlawick et al. (1967, 122) che "quando analizzeremo come le persone si influenzano a vicenda, considereremo l'organizzazione in corso del processo interattivo molto più importante degli elementi specifici costituiti dalla genesi e dal risultato"

Quasi tutte le ricerche sociologiche e psicologiche hanno studiato la comunicazione da un punto di vista più statico che dinamico, esaminando, in genere, lo stato di un sistema (costituito da una o più fonti di emissione e da un gruppo sperimentale di ricezione o da un campione di popolazione) prima e dopo una certa comunicazione, tentando poi di spiegare le modificazioni nel frattempo verificatesi, correlandole statisticamente in vario modo con la ricezione del/dei messaggi e/o con la storia passata del sistema. Viceversa, sono assai poche le ricerche che si sono focalizzate (anche) sulla dinamica "qui ed ora" della comunicazione, che pure, secondo la proprietà dell'equifinalità, risulterebbe assai importante. Ciò non è, naturalmente, casuale ma dipende da diversi fattori, tra cui la maggior semplicità (nonché presunta "scientificità") dei procedimenti quantitativi di comparazione e correlazione rispetto a quelli qualitativi di osservazione diretta.

 

Apertura e chiusura nei sistemi e tra i sistemi

Sia nella interdipendenza tra le diverse parti di un sistema sia nei rapporti tra il sistema e altri sistemi, la quantità e la qualità della comunicazione non è sempre uguale, ma varia in relazione a molteplici fattori. Nei primi modelli sistemici tale concetto veniva espresso senza troppe sfumature con la distinzione tra sistemi chiusi e sistemi aperti. Rientrano tra i primi quei sistemi che non ricevono né emettono alcunché, che, insomma, né sono influenzati dall’ambiente né lo influenzano: si pensi ad una reazione chimica in un contenitore ermeticamente chiuso e termicamente isolato. Fanno invece parte dei secondi quei sistemi che sono permeabili, scambiando biunivocamente materia, energia, informazione con l’ambiente: e qui si possono prendere ad esempio gli organismi viventi nel loro habitat naturale.

E’ evidente che una distinzione netta come quella suesposta è utile per comprendere il concetto, ma non rende adeguatamente conto della varietà di situazioni esistenti; "aperto" e "chiuso" vanno pertanto considerati come poli opposti di un continuum con innumerevoli gradazioni intermedie. E’ inoltre necessario precisare che la chiusura non sembra rientrare tra le caratteristiche dei sistemi naturali, ma contraddistinguere piuttosto alcuni tipi di sistema creati artificialmente dall’uomo, in primo luogo quelli controllati delle indagini di laboratorio, ma non solo: molti sistemi sociali e culturali esistenti sul nostro pianeta, sia nella nostra epoca sia ancor più in passato, presentano inequivocabili segni di chiusura, anche se comunque mai totale, ermetica. Si pensi all’integralismo islamico dei nostri giorni, all’Iraq di Saddam Hussein, alla chiesa cattolica della lotta alle eresie e dell’inquisizione, al sistema delle caste in India etc. Se passiamo dall'ambito dei sistemi socioculturali a quello dei sistemi umani individuali – vale a dire le persone – possiamo vedere ancor meglio le varie gradazioni in cui si può manifestare il fenomeno della chiusura: dalla più leggera, definibile introversione, a quelle intermedie (chiusura mentale, rigidità, egocentrismo), fino alla più marcata: l'autismo.

Il tipo di chiusura che contraddistingue i sistemi socioculturali e psicoindividuali non è necessariamente biunivoco, ma riguarda in genere prevalentemente uno dei due sensi di flusso, cioè o l’uscita (output) o l’entrata (input): L’integralismo islamico è chiuso in entrata ma non in uscita: rifiuta l’essere colonizzato culturalmente ma non l’eventualità di poter colonizzare; il popolo ebraico, invece, almeno sul piano religioso, rappresenta un esempio di chiusura biunivoca, nel senso che non ha mai manifestato apertura all’essere convertito ad altri credo, ma neppure a convertire. Sul piano psicologico-individuale si consideri come esempio del primo caso il soggetto introverso, chiuso in uscita (nel senso che si esprime poco) ma alquanto aperto in entrata, essendo infatti assai spesso un ipersensibile, mentre per l’egocentrico il discorso è rovesciato (chiuso all'ascolto degli altri ma spesso molto loquace nel parlare di sé e delle proprie cose), fino a giungere all’autistico che sembra rappresentare un caso assai marcato di chiusura bilaterale.

Una ulteriore precisazione riguarda poi i livelli su cui la chiusura è operante: non è detto infatti che essa sia totale, ma può riguardare, ad esempio, il solo livello di scambio materiale (ad esempio l’embargo commerciale) o solo quello informazionale (la censura).

Un concetto assai importante, di cui abbiamo preso di recente consapevolezza anche sul piano della ricerca personale, è che nell’uomo, e anche nei sistemi sociali da esso creati, lo stato di chiusura non sorge spontaneo né, una volta sorto, si autoalimenta, ma richiede un impiego deliberato e costante di energie, e si mantiene in essere solo fintanto che tali energie sono all’opera. Continuando a fare riferimento al campo delle scienze umane e sociali, sono noti numerosi processi che determinano una chiusura (embargo, censura, prigionia, meccanismi psicologici di difesa, maschere sociali, corazze etc.) mentre non esiste un corrispettivo riguardo ai processi di apertura: questa viene infatti descritta da sociologi, psicologi, antropologi, economisti etc. in termini non autonomi ma come: fine della chiusura, cessazione di quei processi di isolamento finora attivi etc. Ciò non è casuale, ma riflette una fondamentale verità, (anche se finora implicita, salvo in pochissimi autori), e cioè che lo stato naturale di ogni sistema umano — forse di ogni sistema tout court — è l’apertura, e ad essa tendono anche quei sistemi che si sono (o sono stati) deliberatamente chiusi. In linea di principio, per ripristinare l’apertura sarebbe quindi sufficiente interrompere il controllo; togliendo l’energia a quei processi che mantengono artificialmente isolato il sistema, esso si "rilasserebbe" automaticamente nello stato di apertura. Nella realtà, tuttavia, il processo non è così semplice, dovendo fare i conti — come vedremo nei paragrafi successivi — con una serie di processi omeostatici che non dipendono solo dal sistema in questione ma anche da altri sistemi, sovra- e sottoordinati, con cui esso è in interrelazione. Torneremo più volte sul concetto di chiusura/apertura, precisandone meglio anche le implicazioni e le possibilità operative.

Se, alla luce dei concetti esposti riprendiamo in considerazione il metodo meccanicistico riduzionista, vediamo che esso studia la realtà fisica e sociale come se fosse costituita da gruppi di soggetti e oggetti isolati, cioè privi di interrelazioni significative con altri sistemi-ambiente o con sottosistemi, e ricerca eventuali relazioni lineari causa-effetto. Nelle indagini di laboratorio si fa di tutto per isolare e separare quanto più possibile i vari fattori in gioco, così da poterne osservare l'incidenza uno per volta. Emerge a questo punto un dubbio legittimo: ciò che la scienza meccanicista studia attraverso tale metodo, assomiglia ancora al processo naturale o è una nuova realtà creata artificialmente? Dato che tutto ciò che esiste in natura è tutt'altro che isolato dal resto, fino a che punto le simulazioni di laboratorio della scienza meccanicista e il procedimento della variazione unitaria dei fattori sono in grado di comprenderne la dinamica e l'essenza?

Ad ogni modo è bene ricordare che l’approccio sistemico non si pone come antagonista nei confronti delle varie teorie settoriali e specialistiche ottenute col metodo riduzionista ma anzi può consentire di riunirle, ridefinendole in modo più ampio e flessibile e trasformandole da quadri interpretativi rigidi, settoriali e isolati in tasselli dinamici e interconnessi di un quadro più ampio e interdipendente. In altri termini, l’approccio sistemico è qualcosa di più che una semplice teoria: esso è piuttosto la matrice per la reinterpretazione di vecchie teorie e la formazione di nuove, è insomma un vero e proprio METODO nel senso più nobile del termine.

Cibernetica, ovvero regolazione e autoregolazione nei sistemi

Come si è visto in precedenza, il termine "cibernetica" deriva dalla radice sanscrita Kubera, il timone, e difatti tale disciplina studia i processi di controllo e autoregolazione nei sistemi e tra i sistemi, tant’è che il suo fondatore, Norbert Wiener (1948) la definì esplicitamente la scienza del controllo e della comunicazione nell’animale e nella macchina.

Dato che i sistemi, specie quelli aperti, agiscono in funzione di uno o più scopi, la cibernetica si interessa ai modi in cui il sistema valuta gli effetti del suo agire e compie i necessari aggiustamenti per avvicinarsi alla meta. Un "congegno" cibernetico elementare è ad esempio un termostato, il cui scopo, come dice la parola, è di mantenere costante la temperatura di un ambiente (una stanza, una cella frigorifera, l'abitacolo di un'auto etc). Esso consiste di un sensore, un comparatore e un attivatore: il sensore rileva costantemente la temperatura, il comparatore la compara con il valore impostato e, non appena si discosta da esso invia un segnale all'attivatore, che mette in moto un apparato di riscaldamento o di refrigerazione a seconda dei casi. Non appena la temperatura torna al valore impostato il sensore la rileva, il comparatore la riconosce e invia un secondo segnale all'attivatore che disattiva il circuito fino a nuovo ordine. Tutto il processo si basa sul feedback, cioè l'informazione di ritorno, che nel nostro caso è la misura della temperatura dell’ambiente. Il sistema nel complesso comprende tre elementi: 1) il termostato; 2) l'ambiente climatizzato; 3) l'apparato di riscaldamento/raffreddamento. Tuttavia la cibernetica si interessa soltanto al primo elemento, e ai processi di controllo/regolazione da esso espletati.

Il termostato del nostro esempio è — potremmo dire metaforicamente — la componente senziente e "intelligente" dell'intero sistema, mentre le altre componenti svolgono un ruolo meccanico o di mero contenimento. Per questo motivo, fin dai suoi inizi la cibernetica fornì non solo contributi indispensabili allo sviluppo delle tecnologie dell'intelligenza artificiale — i computers — ma anche allo studio del cervello e dell'intelligenza umana.

Come rileva F. Capra (1996: 71) "Macchine che si autogovernano attraverso anelli di retroazione esistevano già da molto tempo quando nacque la cibernetica. Il regolatore centrifugo delle macchine a vapore, inventato da James Watt alla fine del diciottesimo secolo, ne è un classico esempio, e i termostati furono inventati ancora prima. Gli ingegneri che idearono questi primi dispositivi a retroazione ne descrissero il funzionamento e ne illustrarono i componenti meccanici in schizzi di progetto, ma non si resero conto dello schema di causalità circolare che era insito in essi" ed è questa la reale novità della cibernetica, l’aver compreso il ruolo che il feedback svolge nei sistemi e in particolare in quelli viventi.

La retroazione è, nelle parole di Weiner, ‘il comando della macchina sulla base del suo funzionamento effettivo anziché del suo comportamento previsto’. In senso più ampio, il concetto di retroazione ha assunto il significato di un trasferimento dell’informazione che riguarda il risultato di un qualunque processo o attività alla sorgente dell’informazione stessa.

Uno degli esempi più semplici di anello di retroazione è quello del timoniere, il primo utilizzato da Weiner. Quando la barca devia dalla rotta prestabilita, per esempio verso destra, il timoniere valuta la deviazione e quindi corregge la direzione muovendo il timone verso sinistra. Questa manovra riduce la deviazione della barca, fino al punto, forse, di farle oltrepassare la posizione corretta e quindi di farla deviare a sinistra della rotta prestabilita. Durante la manovra, a un certo punto il timoniere compie una nuova valutazione della deviazione della barca, corregge la direzione di conseguenza, valuta di nuovo la deviazione e così via. Dunque egli si affida a una retroazione continua per tenere la barca sulla rotta, mentre la traiettoria reale compie delle oscillazioni attorno alla direzione prestabilita. L’abilità del timoniere consiste nel ridurre al minimo queste oscillazioni. (op. cit., 70)

Pur essendosi originata nei campi dell'ingegneria, della matematica e (in parte) della fisiologia, la cibernetica ha avuto e ha grandissime implicazioni sulle scienze psicologiche e sociali, come intuì fin dall'inizio Norbert Wiener (1954: 49-50), il fondatore di questa "disciplina": "Questo principio nel controllo (il feedback) si applica non solo alle chiuse di Panama, ma agli stati, agli eserciti e agli esseri umani (...) Questo argomento del feedback sociale riveste un interesse sociologico e antropologico molto rilevante".

Naturalmente, gli esseri umani sono sistemi assai più complessi di un ambiente climatizzato o delle chiuse di Panama, così come il cervello umano è un apparato infinitamente più complesso di un termostato o di qualsiasi altro apparato cibernetico, ma i principi di base su cui opera sembrano sostanzialmente analoghi. Anche nell'uomo abbiamo un sensore — anzi un intero e articolato apparato sensoriale costituito dai cinque sensi più la cinestesia più altri canali ancor meno noti e più sottili — poi abbiamo un comparatore — in parte automatico (il sistema neurovegetativo e i processi omeostatici di mantenimento) e in parte cosciente (la mente propriamente detta) — e infine un attivatore che mette in moto i sistemi neuromotori responsabili della verbalizzazione, della gestualità e del movimento corporeo in genere. Mentre il sistema di climatizzazione prima descritto o anche il timoniere dell’esempio di Wiener possono essere considerati sistemi semplici, poiché rispondono al feedback solo in pochi modi prestabiliti: (acceso o spento, barra a destra o a sinistra) un animale (e ancor più un essere umano) è un sistema complesso, perché può reagire al feedback in molteplici modi. Inoltre, tali modalità possono essere non solo prestabilite ma anche improvvisate creativamente, pertanto quanto più ci si avvicina all'uomo nella catena evolutiva tanto minore è la predicibilità dei comportamenti. Infine, negli esseri viventi e massimamente negli umani il feedback non è costituito da una sola informazione ma da un insieme articolato di dati che riguardano contemporaneamente dimensioni e obbiettivi diversi.

Naturalmente, le caratteristiche suddette vanno intese come potenzialità, nel senso che non tutti gli umani le padroneggiano e le usano appieno: molti individui ad esempio hanno un comportamento molto prevedibile, perché non si discostano mai o quasi dai modelli culturali di appartenenza e dalle proprie abitudini automatizzate; altri invece sono altamente creativi e rompono continuamente schemi e abitudini per esplorare nuove possibilità. Alcune correnti di pensiero contemporanee, influenzate certamente anche dai contributi della cibernetica, ritengono ad esempio che la peculiarità più tipicamente umana dopo l'autocoscienza sia la capacità di agire creativamente.

 

Stato stazionario, perturbazione, auto-riorganizzazione

Nei paragrafi precedenti si è visto che pensare in modo sistemico significa prendere in considerazione la molteplicità di interrelazioni che caratterizza qualsivoglia fenomeno, mentre nel pensiero meccanicistico riduzionista si tende a considerare ogni sistema come isolato, cioè privo di interrelazioni significative con altri sistemi-ambiente o con sottosistemi, limitandosi a ricercare al suo interno relazioni causali monodirezionali tra singole coppie di fattori. Una ulteriore, importante differenza tra i due modi di vedere è che nel meccanicismo le cause dei fenomeni vanno ricercate esclusivamente nel passato, assumendo quella che potremmo chiamare una prospettiva "storico-cronologica"; nell’approccio sistemico si tende invece ad attribuire importanza anche al presente, ai fattori attuali che contribuiscono a mantenere in essere quel certo stato/fenomeno, e non solo a quelli che lo hanno originato. Anzi, quando si studiano i sistemi biologici e umani, i fattori attuali sono spesso più significativi di quelli originari: se infatti non vi fossero "forze" che nel presente tendono a far permanere quel certo stato, il sistema, in virtù delle proprie capacità autoregolative, dovrebbe tornare allo stato iniziale o comunque riorganizzarsi in un nuovo e più soddisfacente equilibrio. Un sistema biologico e ancor più psicologico o sociale non si comporta infatti come un congegno meccanico o un processo chimico-fisico ma possiede una flessibilità e una stabilità molto maggiori. Il sistema semplice di climatizzazione in precedenza usato a mo' d'esempio, "agisce" sempre in base alla regolazione iniziale e non può discostarsi da essa, a meno che non venga reimpostato diversamente; analogamente, la palla di biliardo dell'esempio riportato al par. 2 risentirebbe a lungo di quell’evento del suo passato definito come "urto" e, se si trovasse nel "vuoto" intergalattico, potrebbe addirittura continuare a muoversi in conseguenza di quell’unico evento anche milioni o miliardi di anni dopo che la forza originaria non è più all’opera. Essa insomma dovrebbe attendere un ulteriore intervento esterno per modificare il proprio stato. Un essere vivente o un sistema sociale non seguono invece la legge di inerzia, né quella della regolazione esterna, in quanto possiedono la capacità di autoriorganizzarsi, di modificare dall’interno gli effetti dell’"urto" degli eventi, rallentando, deviando o trasformando la dinamica iniziale. Se un sistema biologico complesso, dopo una perturbazione "sostenibile" — che cioè non lo distrugge o danneggia irrimediabilmente — non ritorna allo stato di equilibrio, può significare:

1) che quegli stessi fattori che hanno ingenerato lo stato perturbato sono ancora all’opera (e allora perché andarli a cercare nel passato?) oppure vuol dire

2) che tale stato si mantiene in essere a causa dell’azione di nuovi e diversi fattori che ostacolano, depotenziano o sviano le funzioni autoriorganizzanti del sistema, rendendolo apparentemente soggetto alla legge di inerzia. Tali fattori sono evidentemente tuttora in funzione e quindi vanno anch’essi ricercati nel presente. Esaminiamo le due eventualità.

1) Ammesso che ricorra il primo caso e che sia quindi utile comprendere le cause iniziali dei fenomeni che a noi interessano, sarà possibile attingere, con le dovute cautele, alla ricerca meccanicista tradizionale, che si è estesamente (quasi esclusivamente) soffermata sull’individuazione di tali cause. Ciò, naturalmente, con l’avvertenza basilare di tenere in considerazione la profonda differenza tra la concezione classica del rapporto causa-effetto e quella sistemica. La prima, infatti, come si è già accennato, è eminentemente lineare e unidirezionale, il che porta a distinguere nettamente tra causa (variabile indipendente) e effetto (variabile dipendente). La seconda invece è di tipo circolare e biunivoco, e pertanto ciò che meccanicisticamente è ritenuto "effetto" può retroalimentare il circuito e divenire a sua volta elemento propulsore o dissuasore (causa). In altri termini, il modo in cui un determinato soggetto reagisce ad un certo fattore può stimolare o inibire o modificare la produzione successiva di detto fattore, può cioè retroagire sul soggetto inizialmente responsabile dell’attivazione di tale fattore. Ciò è massimamente evidente in campo sociale, dove tale retroazione, o feedback, ha natura informazionale più che materiale o energetica. Ad esempio, le conseguenze di una interazione tra due o più persone non sono mai imputabili all’agire di uno solo dei due, ma dipendono sempre dal prodotto di entrambe le personalità e dal contesto socioculturale in cui l’incontro avviene. Se — poniamo — A reca offesa a B, il meccanicismo attribuirà ad A l’intera responsabilità (colpa) di quanto accade dopo; tuttavia, basta un po’ di buon senso per rendersi conto che il risultato dipenderà anche dal modo in cui B reagisce (e questa è una sua responsabilità). Il fatto che A abbia iniziato per primo non è affatto determinante, per l’ottica sistemica, e, tra l’altro, non è affatto detto che quello sia veramente il punto d’inizio dello scontro: evidentemente qualcosa covava da tempo, o è accaduto qualcosa in precedenza: non si offende qualcuno senza un motivo, giusto o meno che sia, a meno che A non soffra di qualche patologia psichica, nel qual caso B non ha motivo di sentirsi offeso da uno sconosciuto, a meno che non soffra a sua volta di un profondo senso di persecuzione o insicurezza (e questo è un suo problema) etc. etc.

Come si vede, attribuire ad A il ruolo di variabile indipendente (o causa) è del tutto arbitrario e infondato. E questo vale, in campo psicosociale, praticamente per ogni genere di situazione. Lo stato stazionario (o di equilibrio) di un sistema aperto è in certa misura indipendente dal suo stato iniziale, ed è determinato principalmente: a) dalla natura del processo in atto; b) dai parametri del sistema. Ne consegue che "quando analizzeremo come le persone si influenzano a vicenda, considereremo l’organizzazione in corso del processo interattivo molto più importante degli elementi specifici costituiti dalla genesi e dal risultato" (P. Watzlawick et al., 1971: 122).

Dunque, più che spezzettare il processo in fasi e ruoli distinti è necessario considerarlo nella sua interezza e circolarità, ponendo i soggetti in gioco tutti sullo stesso piano (cioè come influenzatori e influenzati allo stesso tempo) e cercando di capire come ognuno, a suo modo, contribuisce al permanere di un certo stato di cose. Ciò comporta un cambiamento di prospettiva, non più incentrata sui singoli individui (visione oggettuale-corpuscolare) ma sui processi in atto nel sistema (visione ondulatoria-processuale). In campo sociale ciò porta a interventi basati su una visione impersonale degli eventi che riduce o elimina l'antagonismo tra le parti, non puntando a stabilire chi abbia ragione e chi torto ma semmai come sia possibile migliorare l'interazione con vantaggio reciproco (cfr. E. Cheli, R. Renzini, 1995).

2) Nella realtà, la maggior parte dei problemi sociali si mantiene in essere per via di fattori diversi da quelli che hanno innescato il processo: il caso 1 si rivela cioè un eccezione, laddove la regola ricade nel caso 2. Occorre dunque procedere all’individuazione di quei nuovi fattori che tendono a mantenere in essere il fenomeno, ostacolando in vario modo la capacità autoriorganizzatrice del sistema. Fattori, cioè, che svolgono funzioni omeostatiche (dal greco Hòmoios = simile e stàsis = stare; dunque: non cambiare, rimanere uguale).

 

La funzione omeostatica

Walter Cannon (1932) fu forse il primo ad esplicitare il ruolo e l’importanza dell’omeostasi nei sistemi viventi, ma solo grazie al concetto cibernetico di anello di retroazione (feedback loop) si comprese a fondo il funzionamento dei processi autoregolativi e la rivoluzione che ciò comportava in termini di modelli causali. Mentre nella comprensione della dinamica dei sistemi meccanici e fisico-chimici elementari assume grande rilievo l’individuazione delle cause iniziali (variabili indipendenti) nei sistemi viventi e nei sistemi complessi caratterizzati da processi omeostatici tali cause possono essere molto meno rilevanti, in virtù del fatto che il sistema è in grado, entro certi limiti, di autodeterminare il proprio stato – mentre assumono rilavanza centrale le variabili attuali (come si è visto ai par. 4 e 7).

I processi omeostatici, oltre ad operare dall’interno del sistema, sono spesso presenti anche ad altri livelli, vale a dire nei sovra- e sotto-sistemi con cui esso è in relazione. Ciò determina una ridondanza d’informazione tale che, se anche cessassero di operare i processi propri di un livello vi sarebbero sempre gli altri livelli in funzione e l’equilibrio, se pure precariamente, sarebbe mantenuto. Ciò è molto positivo per la sopravvivenza dei sistemi, ma diviene un handicap assai rilevante quando l’omeostasi tende a perpetuare stati patologici o frena i processi evolutivi. Si pensi ad un frigorifero inserito in una stanza climatizzata a bassa temperatura: se anche il termostato del frigo si guasta, la sua temperatura non salirà più di tanto, grazie al termostato dell’ambiente in cui è situato, e ciò consentirà di contenere i danni. Si supponga però che il frigo entri in uno stato "patologico" di iperattività e debba essere sbrinato, ma che, pur potendo disattivare temporaneamente il frigo non si abbia accesso al termostato della stanza: in tal caso il doppio circuito omeostatico risulterà un ostacolo, rendendo più difficile e dispendiosa la "terapia". In campo sociale gli esempi sono innumerevoli: ogni individuo possiede infatti non solo omeostati interni ma è inserito in ambienti omeostatici, dalla famiglia al gruppo di amici alla società in generale, che limitano, in bene e in male, le possibilità di oscillazione del proprio stato d’essere. Per fare un riferimento specifico, attinente al campo sociosanitario, possiamo rilevare che generalmente le varie terapie (mediche, psicologiche, sociali) quando applicate isolatamente hanno la possibilità di agire sui alcuni dei circuiti omeostatici dell’individuo ma non su altri: ad esempio, un intervento solo farmacologico può temporaneamente risolvere una patologia dell’apparato digerente, ma non può modificare le cattive abitudini alimentari del paziente, che, se lasciate immutate, tenderanno prima o poi a riinnescare la patologia. Lo stesso vale per tutte quelle patologie di chiara impronta psicosomatica; in entrambi i casi è necessario "ritarare" circuiti omeostatici che, pur non essendo direttamente presenti nei sintomi, sono strettamente connessi alla genesi o al perdurare della patologia. Un altro caso molto frequente è quello di trascurare il ruolo dei vari sistemi-ambiente cui il soggetto appartiene. Citiamo ad esempio il caso di una iniziativa organizzata alcuni anni fa nell’ambito di un progetto di prevenzione in un quartiere ad alto disagio sociale dell'area fiorentina. Tale intervento consisteva in un gruppo di auto-aiuto per donne che ha dato in un primo tempo notevoli risultati, ma poi ha risentito negativamente dell’azione omeostatica proveniente da un altro sistema di cui le singole partecipanti erano membri: la famiglia. Tale azione si è manifestata sotto forma di riduzione o interruzione della partecipazione dovuta — come esplicitamente ammesso dalle dirette interessate — ad una resistenza ad abbandonare i propri "doveri" familiari, ad infrangere certe consuetudini (uscire la sera lasciando il marito solo) etc.; resistenza che si è manifestata non solo esplicitamente, nelle rimostranze dei mariti, ma anche implicitamente, nei sensi di colpa interiorizzati dalle donne stesse.

 

Prevenzione e terapia nell'ottica sistemica

Lo spirito olistico e circolare che caratterizza il pensiero sistemico, porta a dissolvere la netta linea di separazione tra terapia e prevenzione: se la terapia è vera terapia (cioè va alle radici e non si ferma in superficie, all’apparenza, al sintomo) essa svolge automaticamente anche funzioni di prevenzione, poiché aiuta il sistema a trovare uno stato di equilibrio più efficiente. E viceversa, un intervento di prevenzione, se sistemicamente appropriato, funge automaticamente da terapia anche per problemi "esterni" alla sua sfera di pertinenza, agli obiettivi specifici per cui esso è stato progettato ed effettuato. Sistemicamente appropriato significa infatti che non si limita a intervenire sui sintomi ma affronta il problema in modo più globale:

Quando ciò avviene con successo, i processi attivati tendono automaticamente ad estendersi all’intero spazio di vita del sistema, potendo contribuire alla soluzione di problemi e patologie anche molto "distanti" da quelli per cui l’intervento era stato progettato. Ad esempio, con una prevenzione medica che punta al potenziamento delle difese immunitarie non solo si potrà prevenire l’insorgere di quelle specifiche malattie per cui la cura è stata progettata, ma si potrà far guarire il soggetto da eventuali altri disturbi già in corso. Nello spirito sistemico i principi e gli strumenti della terapia e della prevenzione sono in larga misura gli stessi, poiché il fulcro su cui agiscono è unico: è la capacità del sistema di autoriorganizzarsi. Solo nella visione di tipo deterministico si crede vi sia differenza, perché ci si sofferma in superficie, sulla manifestazione esteriore, sul sintomo, e a tale livello il problema può assumere in effetti differenti e multiformi aspetti; ciò porta inevitabilmente a chiedersi quali fattori patogeni, in quali serie di circostanze possano averlo generato. Ma se ci si focalizza in profondità, alle radici del problema, la domanda essenziale cui rispondere diviene una sola: che cosa trattiene il sistema dal reagire efficacemente ed autoriorganizzarsi su un nuovo e più soddisfacente stato di equilibrio?

Questa, in estrema sintesi, è l’essenza dell’analisi e diagnosi sistemica, e altrettanto semplice e chiara è la domanda da porsi per focalizzare l’intervento: come si può stimolare il sistema a liberarsi dai vincoli e ad attualizzare le proprie potenzialità creative di autoriorganizzazione?

 

La funzione evolutiva

Come già traspare da quanto sopra accennato, l’omeostasi non è l’unica caratteristica dei sistemi. Specie nei sistemi viventi, e in particolare in quelli umani, è infatti riscontrabile un’altra basilare funzione che costituisce, per così dire, il polo opposto (e complementare) all’omeostasi e che potremmo definire: funzione di crescita o funzione evolutiva. Molti studiosi, specie in campo psicologico e sociale (ma anche biologico), l’hanno spesso confusa con la funzione di "adattamento", riducendone sensibilmente la portata: certo, l’uomo ha la facoltà di reagire a cambiamenti ambientali anche consistenti, adattandovisi in vario modo (molto utile a riguardo la distinzione piagettiana tra assimilazione e accomodamento); ma tale adattamento è pur sempre visto come un tentare di mantenere, difendere l’equilibrio preesistente, dunque rinvia in ultima analisi ad un processo omeostatico. E’ la procedura di comportamento del celebre automa di Von Neumann, o delle macchine a retroazione di Ashby, la cui unica forma di intelligenza era rappresentata da un circuito di retroazione collegato ad un omeostato. Ciò che qui si intende con funzione evolutiva è invece qualcosa di diverso, di più ampio, qualcosa che nessun automa, reale o teorico, è stato ancora in grado di fare: è un andare oltre i propri limiti, non accontentandosi di mantenere l’equilibrio preesistente e star bene almeno quanto in passato, ma desiderando piuttosto di rompere l’attuale equilibrio per ricercarne uno più soddisfacente; in termini sistemici l'evoluzione è la tendenza a trascendere l’omeostasi, a proiettarsi nel futuro, a desiderare e ricercare un futuro migliore. Una tendenza evolutiva di cui non necessariamente si è consapevoli (e di qui l’opacità di alcuni conflitti interiori) ma che è sempre presente negli organismi viventi e in particolare nell’uomo. La "crescita" definisce insomma una classe a sé stante di processi di cambiamento, che non sono innescati tanto da perturbazioni esterne o mutamenti ambientali, ma sono piuttosto autogenerati dal sistema stesso, seppure in modo non necessariamente consapevole. Per riassumere:

L’omeostasi dice: meno si cambia meglio è.

La crescita sostiene invece: è possibile cambiare in meglio.

Queste due forze esprimono l’eterno confronto tra ordine e disordine, tra il bisogno di prevedibilità e la ricerca dell’indeterminato, del nuovo, dell’ignoto; tra l’esigenza di rassicurazione e dipendenza e il desiderio di novità e autonomia. Anche se omeostasi e crescita possono sembrare tendenze contrapposte, in realtà non lo sono, poiché entrambe puntano al benessere del sistema: se divergono è perché concepiscono diversamente cosa debba intendersi per "benessere" e come esso vada raggiunto.

In un sistema ideale, completamente "sano", le due tendenze coesistono pacificamente, svolgendo ruoli complementari e cooperando in armonia: l’omeostasi è il circuito di sicurezza/sopravvivenza, l’evoluzione quello di orientamento/avanzamento. La crescita procede a tappe, e nell’intervallo tra una tappa e l’altra lascia all’omeostasi il compito di creare quel tanto di stabilità e tranquillità che consente al sistema di "prendere consapevolezza" del nuovo stato raggiunto e di assimilarne i contenuti; l’omeostasi a sua volta acconsente a disattivare i propri circuiti ogni volta che la crescita ritenga necessario salire un altro gradino, assecondandola invece di ostacolarla, ritarando quindi tali circuiti in modo appropriato al nuovo stato raggiunto.

Per quanto riguarda l’umanità va purtroppo osservato che i sistemi socioculturali in cui viviamo si avvicinano ben poco all’ideale suesposto e più che sani appaiono dissociati se non, in molti aspetti, schizofrenici. Ne consegue che le due funzioni non si conciliano e anzi si combattono, in genere con una prevalenza dell’omeostasi, più legittimata dai sistemi di credenze e valori dominanti nelle principali culture umane, mentre la funzione di crescita rimane spesso latente, vuoi perché non coltivata, vuoi perché — per ignoranza, paura o condizionamento esterno — è stata repressa.

Comunque, ogni volta che — come nel caso della prevenzione o della terapia — si vuole stimolare o facilitare un cambiamento migliorativo in un sistema, non si può prescindere dal considerare anche e soprattutto la funzione evolutiva. Il fatto che tale cambiamento richieda un aiuto esterno e che il sistema non abbia proceduto autonomamente in tal senso, può significare che la funzione omeostatica è, per qualche motivo, preponderante, o perché il sistema risente di influenze esterne (vedi l’esempio del frigo nella stanza climatizzata) o perché così si è internamente organizzato (e in questo secondo caso diremo, in termini antropomorfi, che il sistema "ha paura" del cambiamento). L’intervento andrebbe dunque articolato in due direzioni: allentare la morsa omeostatica e ridare vigore alla funzione evolutiva. In realtà, allo stato attuale, la maggior parte degli interventi in campo politico sociale ed economico preferiscono non andare a toccare tali aspetti basilari ma semmai introdurre nuovi meccanismi nel sistema che tamponano, più che realmente risolvere, il problema. Questo modo di procedere, oltre risultare inefficace, finisce per produrre un aumento di complessità del sistema stesso che diviene così ancora più confuso e ingestibile. Si pensi a quanto avviene riguardo ad un problema di rilevanza mondiale quale quello dell’esplosione demografica e alla connessa questione del controllo delle nascite: invece di affrontarlo alla radice, depotenziando certi tabù religiosi (riduzione dell’omeostasi) e sottolineando il ruolo di piacere e comunicazione della sessualità come alternativo a quello di riproduzione pura e semplice (stimolare la funzione di crescita) si preferisce introdurre meccanismi tampone quali: assistenza ai paesi poveri, adozione di parte dei bambini in eccesso, missioni etc. Il tutto pur di non mettere in discussione credenze che un tempo potevano anche avere un qualche senso, data la scarsa popolazione e l’alta mortalità, ma che oggi sono del tutto anacronistiche ed anzi fortemente pericolose per la sopravvivenza della specie.

 

11. Ordine, disordine, complessità

L'approccio sistemico conduce ad una visione della realtà assai diversa da quella del modello meccanicista, con un mondo assai più ricco, ma anche più complesso, caratterizzato da un intreccio fittissimo di interrelazioni per il quale non disponiamo, al momento, di strumenti di orientamento all'altezza delle esigenze. Tuttavia, se è vero che lo scopo della scienza è quello di approssimarsi sempre più alla realtà e se tale realtà, in ogni sua dimensione è manifestamente complessa e interdipendente, è giusto ed inevitabile affrontarne lo studio con strumenti concettuali che riconoscano tale stato di fatto, e non che lo neghino o lo minimizzino, operando drastiche quanto distorcenti semplificazioni. L’approccio sistemico tenta appunto di affrontare in modo onesto e coraggioso una complessità che è sempre esistita ma dalla quale il meccanicismo-riduzionismo ha tentato di prescindere, quasi di fuggire.

Adottare il modo sistemico di pensare, di esplorare, di teorizzare può forse, all'inizio, farci sentire persi in un mare magnum, soverchiati da una enormità di fattori, da un groviglio di relazioni causali, e forse può anche farci balenare il rimpianto della calma, semplice, rassicurante sponda del meccanicismo-riduzionismo, con le sue strade ordinate, ortogonali e a senso unico. In effetti, una mente come quella occidentale, educata (e confinata) al pensiero logico-razionale, allo spazio euclideo, alla causalità lineare, alle dicotomie, alla personificazione della divinità come entità distinta dal sé e dal tutto non può che comprendere con difficoltà aspetti quali l’interdipendenza, la circolarità causale, la globalità; non può, all’inizio, che avvertire come disordine ciò che, semplicemente, è ordinato secondo criteri non lineari e non bidimensionali; non può che sentire minaccioso ciò che sembra fuoriuscire dai suoi limitati, culturalmente relativi, criteri di valutazione. Per dirla con Geertz, dopo aver abitato per secoli in edifici quadrati, vivendo in stanze quadrate, sedendo su sedie quadrate non possiamo fare altro che pensare pensieri quadrati; ciò non significa però che si debba per sempre rimanere confinati in tali limiti; anzi, come suggerisce Edgar Morin, "bisogna prendere atto che l'ordine ha smesso di essere uno. Vi è dell'ordine nell'universo, non vi è un ordine. Einstein aveva sognato, senza pausa e senza successo, di unificare le interazioni gravitazionali e quelle elettromagnetiche. Sognava un'unica chiave di volta dell'ordine. Ma l'unità dell'universo dev'essere cercata altrove dall'ordine. L'ordine di un cosmo scoppiato non è necessariamente plurale, disgregato?" (Morin E., 1983: 99)

Se si è sufficientemente flessibili, disponibili a non arroccarsi sulle posizioni pregresse, è possibile superare questo momento di comprensibile sconforto, tipico di ogni avanscoperta in territori sconosciuti e alieni, e giungere così alla consapevolezza che quello che secondo i vecchi schemi appare un confuso groviglio risulta essere, alla luce dei nuovi, un ordine di livello superiore, più bello, pulsante, armonico di quello sinora noto.Vari studiosi hanno sperimentato in prima persona, ristrutturazioni radicali del proprio campo percettivo, mutamenti della propria immagine della realtà, che li hanno portati a cogliere, se pure a sprazzi, ordini di tipo logico diverso. Emblematico il caso dei fisici atomici fondatori della meccanica quantistica:

Nel XX secolo i fisici si trovarono per la prima volta di fronte ad una seria sfida alla loro capacità di capire l'universo. Ogni volta che essi ponevano una domanda alla natura in un esperimento atomico, la natura rispondeva con un paradosso, e quanto più essi si sforzavano di chiarire la situazione tanto più acuto il paradosso diventava. Nei loro sforzi per comprendere questa nuova realtà, gli scienziati divennero sgradevolmente consapevoli del fatto che i loro concetti di base, il loro linguaggio e tutto il loro modo di pensare erano inadeguati a descrivere fenomeni atomici. Il loro problema era non solo intellettuale, ma implicava una intensa esperienza emotiva ed esistenziale, che è descritta vividamente da Werner Heisenberg: "Ricordo delle discussioni con Bohr che si prolungavano per molte ore fino a notte piena e che ci condussero quasi ad uno stato di disperazione; e quando al termine della discussione me ne andavo da solo a fare una passeggiata nel parco vicino continuavo sempre a ripropormi il problema: è possibile che la natura sia così assurda come ci appariva in quegli esperimenti atomici?"

Quei fisici impiegarono molto tempo ad accettare il fatto che i paradossi in cui si imbattevano sono un aspetto essenziale della fisica atomica, e a rendersi conto che essi si presentano quando si cerca di descrivere fenomeni atomici nei termini di concetti classici. Una volta compreso questo fatto, i fisici cominciarono ad imparare a porre le domande giuste e a evitare contraddizioni. Come dice Heisenberg "essi entrarono in qualche modo nello spirito della teoria quantistica". (...) il cui sistema concettuale non era affatto facile da accettare. Il suo effetto sulla visione della realtà dei fisici fu veramente distruttivo. La nuova fisica richiedeva profondi mutamenti nei concetti di spazio, tempo, materia, oggetto, e di rapporto causale; e poiché questi concetti sono così fondamentali per il nostro modo di sperimentare il mondo, la loro trasformazione fu sentita come un grande trauma. Per citare di nuovo Heisenberg: "Questa violenta reazione ai recenti sviluppi della fisica moderna può essere intesa soltanto se ci si rende ben conto che questa volta hanno cominciato a spostarsi gli stessi fondamenti della fisica; e che questo spostamento ha prodotto la sensazione che ci sarebbe stato tolto da sotto i piedi, a opera della scienza, il terreno stesso su cui poggiavamo". (F. Capra, 1984: 66-67)

Che una tale ristrutturazione, anche radicale, del campo percettivo sia avvenuta, in questo come in altri casi, è una chiara testimonianza del fatto che, in ultima analisi, la realtà non è né complessa né semplice: come forse direbbe un mistico Essa semplicemente è. Complessa o semplice, unitaria o frammentaria, coerente o paradossale è solo la sua apparenza, non la sua essenza, è cioè il modo in cui noi la vediamo, un modo che oggi sappiamo condizionato alla radice dai nostri schemi percettivo-interpretativi, nelle loro matrici neurofisiologiche, psicologiche e socioculturali. Cambiando quindi schemi — mutando paradigma — cambia anche la realtà, o meglio la realtà come ci appare, che è poi quella che la scienza indaga e con la quale abbiamo comunemente a che fare.

Presupposto primo per giungere a un tale cambiamento è il superamento dei confini posti dai modelli di pensiero finora dominanti, innescando un dibattito serio e non pregiudiziale riguardo a cosa debba intendersi per "mente scientifica" e "pensiero scientifico". Fino ad oggi a tali concetti venivano immancabilmente associate capacità esclusivamente razionali, quali l'analiticità e l'astrazione, la logica, il distacco emotivo e via dicendo (riconducibili all'emisfero sinistro del cervello), mentre venivano escluse quelle capacità più intuitive, analogiche, emozionali, globali tipiche dell'emisfero destro, tradizionalmente associate, tra l'altro, alla mente artistica. Arte e scienza, è noto, hanno a lungo rappresentato i due poli di una rigida dicotomia. La visione sistemica richiede il superamento di questa scissione, poiché c'è bisogno di entrambe queste classi di capacità per poter cogliere e comprendere la realtà, nelle sue interrelazioni, interferenze, intrecci pluridimensionali, nella sua armonia nascosta. Per citare ancora una volta Morin (op. cit., 181) "le nozioni di arte e scienza, che nell'ideologia tecno-burocratica dominante si oppongono, devono qui associarsi, come in qualunque luogo ove si dia realmente scienza. Il concetto di sistema richiede quindi la piena utilizzazione delle qualità personali del soggetto, nella sua comunicazione con l'oggetto". L'arte ha molto da insegnarci sul rappresentare e gestire la complessità, sul muoversi in spazi non lineari, sull'affrontare contraddizioni e paradossi, sull'assumere un atteggiamento più aperto e ricettivo nei confronti della realtà, senza volerla a tutti i costi ricondurre a schemi preesistenti e ad una malintesa oggettività. Spesso l'artista è molto più coraggioso dello scienziato e dell'uomo comune nell'avventurarsi in territori sconosciuti e anche più flessibile, disponibile cioè ad infrangere vecchie consuetudini, a giocare creativamente con i linguaggi, i concetti, le strutture nel tentativo di rappresentare l'impressione che di quei territori ha ricavato.

Ad ogni modo, l'accettazione del modello sistemico non implica tout court di liquidare il paradigma riduzionista; come abbiamo visto nel capitolo precedente, è di fatto possibile e anzi indispensabile conciliare queste due diverse visioni della realtà, considerandole cioè come complementari più che conflittuali.

 

Conciliare riduzionismo e olismo

Tra le critiche sollevate nei confronti dell'approccio sistemico, le principali riguardano la sua difficile o impossibile traduzione in termini operativi di ricerca sperimentale, vuoi di laboratorio, vuoi sul campo. Le variabili in gioco sono troppe e per di più molte sono di difficile o impossibile operazionalizzazione. In effetti non esistono, al momento, metodi operativi né strumenti di indagine atti a tradurre le ipotesi sistemiche in disegni di ricerca concretamente realizzabili, e quindi manca quella che per la scienza moderna è il requisito primo di scientificità: la possibilità di verificare empiricamente le ipotesi all'interno di protocolli replicabili. I metodi, gli strumenti, i procedimenti statistici attualmente disponibili sono tutti derivati dall'assunto riduzionista e dal modello di causalità lineare meccanicista; anche quelli più sofisticati, che prendono in considerazione l'interrelazione tra gruppi di variabili, (analisi multivariata, clusterizzazione, analisi fattoriale, etc.) si muovono sempre all'interno di una logica lineare, e pur tentando di simulare lo stato di interdipendenza a causalità circolare, operano sempre con procedimenti di chiara marca riduzionista: è un po' come tentare di misurare una circonferenza con un righello rigido; per quanto piccolo sia tale righello, per quante misurazioni si facciano, quello che avremo non sarà mai una circonferenza ma un poligono, seppure con lati molto piccoli da assomigliare ad una circonferenza.

Dobbiamo tenere presente che i metodi e gli strumenti lineari del riduzionismo-meccanicismo sono il frutto di 4 secoli di ricerca, di sperimentazione, di affinamento; il modello sistemico è invece relativamente recente ed è ovvio che non si può pretendere da esso lo stesso grado di elaborazione metodologica del paradigma dominante. Abbiamo visto, nel capitolo precedente, che la scienza della separazione si è sviluppata anche grazie ad un affilato metodo analitico, mentre non esiste niente di simile a disposizione della "scienza dell'unione": non solo essa non ha avuto un equivalente di Cartesio, né un "metodo sintetico" sviluppato quanto il metodo analitico, ma addirittura non si dovrebbe, a rigore, neppure parlare (ancora) di scienza dell'unione, dato il suo ridotto grado di sviluppo. E' solo da pochi decenni che alcuni gruppi di studiosi si stanno dedicando ad affinare ed esplorare detto versante, tra le mille difficoltà del pionierismo e dell'ostilità o indifferenza del resto della comunità scientifica (con conseguente ristrettezza di fondi e di opportunità di ricerca).

Ma la questione è più complessa e non si riduce ad un fatto di età.

Dobbiamo considerare infatti che la visione sintetica e unitaria della realtà è qualitativamente diversa dalla visione analitica e dualistica, tipica della scienza come noi la conosciamo e quindi chiedergli di procedere mediante l'operazionalizzazione delle variabili non ha senso, significa continuare a vedere le cose attraverso gli occhiali del metodo analitico.

Pretendere dal paradigma sistemico metodi simili a quelli del paradigma riduzionista è un po' come pretendere che una donna veda la realtà come un uomo o che un'artista ragioni come un matematico. D'altra parte, se accettiamo che il metodo sintetico rappresenti in un certo senso l'aspetto femminile della conoscenza, l'emisfero cerebrale destro, non c'è da meravigliarsi che nella nostra cultura, ancora profondamente maschilista, la scienza analitico-riduzionista avanzi simili pretese. Oggi tuttavia è sempre più evidente che non ha senso stabilire chi sia migliore tra l'uomo e la donna, chi debba dominare e chi essere dominato; non si tratta di assumere una logica conflittuale di esclusione del tipo "o l'uno o l'altro" ma di riconoscere che entrambi sono necessari e meritano pari dignità, e le rispettive differenze non vanno viste come conflittuali ma complementari.

Se trasponiamo questa concezione dall'ambito dei rapporti uomo-donna a quelli tra metodo analitico e metodo sintetico possiamo considerarli non più conflittuali ma anzi complementari: due punti di vista diversi sulla realtà ed entrambe necessari, che possono e debbono collaborare e integrarsi. Ovviamente, è indispensabile rispettare le peculiarità di ognuno, senza pretendere di scimmiottare malamente l'altro: non dobbiamo chiedere all'approccio sintetico-globale di seguire le orme dell'approccio analitico-riduzionista, come pretendono gli scienziati ortodossi e neppure fare l'errore opposto, di chiedere all'approccio analitico di snaturarsi e rinnegare le sue valide e importanti capacità, come certi sostenitori di un malinteso olismo vorrebbero. Cerchiamo piuttosto di accettarli entrambi come punti di vista relativi sulla realtà: se piuttosto, è indispensabile migliorare la comunicazione tra i due metodi e i rispettivi sostenitori, così da addivenire ad una comprensione reciproca dei due punti di vista.

Per comprendere i ruoli che i due metodi potrebbero svolgere in una visione complementare e unificata risulta assai utile il modello a tre livelli proposto da F. Capra per i sistemi viventi e riportato alla tabella 1.

 

 

Tabella 1– I tre livelli fondamentali di un sistema vivente secondo F. Capra

 

Schema di organizzazione

La configurazione delle relazioni che determina

le caratteristiche essenziali del sistema.

 

Struttura

La materializzazione fisica dello

schema di organizzazione del sistema.

 

Processo della vita

L’attività necessaria alla materializzazione continua

dello schema di organizzazione del sistema.

 

In estrema sintesi, ciò che propongo è di interpretare l’autopoiesi, definita da Maturana e Varela, come lo schema della vita (cioè come lo schema di organizzazione dei sistemi viventi); la struttura dissipativa, definita da Prigogine, come la struttura dei sistemi viventi; e la cognizione, definita inizialmente da Gregory Bateson e in modo più completo da Maturana e Varela, come il processo della vita.

Lo schema di organizzazione determina le caratteristiche essenziali di un sistema. In particolare, stabilisce se il sistema è vivente o no. Nella nuova teoria, l’autopoiesi – lo schema di organizzazione dei sistemi viventi– è quindi la caratteristica che definisce la vita. Per stabilire se un particolare sistema – un cristallo, un virus, una cellula o il pianeta Terra– è vivo, tutto ciò che ci serve è stabilire se il suo schema di organizzazione è quello di una rete autopoietica. Se lo è, abbiamo a che fare con un sistema vivente; se non lo è, il sistema non è vivente.

Come vedremo, la cognizione, il processo della vita, è legata in maniera indissolubile all’autopoiesi. Autopoiesi e cognizione sono due aspetti differenti dello stesso fenomeno. Nella nuova teoria tutti i sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e la cognizione comporta sempre l’esistenza di una rete autopoietica.(Capra F.:, 1997: 180-181)

Ai nostri fini, il modello di Capra è molto utile perché mette in risalto la diversa natura dei concetti di "schema" e di "struttura", situati su due livelli assai diversi: "Nello studio della struttura misuriamo e pesiamo le cose. Gli schemi, però, non possono essere misurati o pesati; bisogna darne una rappresentazione grafica. Per comprendere uno schema, dobbiamo disegnare una configurazione di relazioni. In altre parole, la struttura coinvolge la quantità, mentre lo schema coinvolge le qualità" (ibidem). Questo ci ricollega alla diversa natura dei due approcci, analitico e sintetico, riduzionistico ed olistico: quantitativo il primo e quindi ben adatto a misurare i gradi di differenza della struttura; qualitativo il secondo e dunque adatto a cogliere i collegamenti, evidenziare le analogie, gli isomorfismi e quindi le relazioni presenti sui vari piani. Lo stesso Capra è ben consapevole della possibilità e necessità di integrare i due approcci quando sostiene che "la chiave per una teoria completa dei sistemi viventi stia nella sintesi di questi due approcci: lo studio dello schema (ovvero di forma, ordine, qualità) e lo studio della struttura (ovvero di sostanza, materia, quantità)". (op. cit., p. 178)

Tuttavia, pur facendo questa distinzione, dobbiamo tener presente che i tre criteri sono del tutto interdipendenti. E’ possibile riconoscere lo schema di organizzazione solo se è materializzato in una struttura fisica, e nei sistemi viventi questa materializzazione è un processo continuo. Dunque struttura e processo sono legati in maniera indissolubile. "Potremmo dire che i tre criteri – schema, struttura e processo- sono tre modi diversi ma inseparabili di osservare il fenomeno della vita" (ibidem). In altri termini, ciò che dobbiamo fare è una sintesi, non una ulteriore suddivisione e spartizione del territorio.

.

 

 

La salute nella visione sistemica

di Marco Ingrosso

Recensendo il libro di Jay Haley, Family Therapy, Gregory Bateson scriveva, nel 1971, che la diffusione della terapia familiare rappresentava qualcosa di più dell’introduzione di un nuovo metodo o di un cambiamento di unità sociale di riferimento: essa comportava una nuova epistemologia e una nuova ontologia "cioè un modo nuovo di concepire una mente e una nuova visione del posto dell’uomo nel mondo" (1997, 392). Essa spostava l’accento dalla psicologia individuale ad una qualche forma di teoria dei sistemi o di cibernetica. Per Bateson "un sistema, in ultima analisi, è un’unità contenente una struttura di retroazione: quindi in grado di elaborare informazione". L’unità sistemica tipo è costituita dall’organismo individuale più l’ambiente in cui interagisce: infatti "la regola fondamentale della teoria dei sistemi è che se si vuole capire un fenomeno lo si deve considerare nel contesto di tutti i circuiti completi ad esso pertinenti" (ib., pp.394-395). La mente, per Bateson, è costituita da notizie di differenze che passano dentro e fuori dell’organismo e che vengono elaborate ricorsivamente per confermare l’accoppiamento fra l’organismo e l’ambiente.

Ad un livello molto generale, più che di un adattamento dell’essere vivente all’ambiente si deve parlare di un’interazione cogenerata, per cui i cambiamenti di una parte stimolano e permettono i cambiamenti dell’altra. Una certa sincronizzazione reciproca comporta una stabilità del rapporto all’interno di una storia evolutiva. Dunque, certi cambiamenti autocorrettivi o flessibilità rendono possibile una preferenza per la stabilità a salvaguardia di caratteristiche più profonde e necessarie del sistema interno (autopoietico, nella terminologia di Maturana e Varela, 1980) e della struttura ecorelazionale (sistema eco-auto-organizzativo, nella definizione di Morin, 1985). La stabilità nel cambiamento passa per degli apprendimenti che si collocano a diversi gradi di profondità delle premesse e del contesto entro cui la forma della relazione viene mantenuta.

Si danno tuttavia anche dei processi schismogenetici, in forma "simmetrica" o "complementare", che possono comportare, talvolta, delle rotture nelle forme relazionali e l’intervento di meccanismi regolatori di più ampio livello. Il disordine generato si risolve, generalmente, nella formazione di nuove strutture organizzative (morfogenesi), ma può comportare anche il collasso e l’eliminazione di forme obsolete, inadeguate al contesto complessivo entro cui una struttura relazionale e comunicativa si definisce.

L’interazione fra organismi viventi e la loro nicchia ecologica va molto al di là degli scambi energetici o meccanici individuati dall’ecologia ambientalista: essa comporta scambi informativi che, allorché si riferiscono a strutture relazionali - vitali per la sopravvivenza -, sono realizzati attraverso un linguaggio analogico e gestaltico, molto diverso da quello analitico, sostanziale e coscienziale che si è evoluto in parallelo nella specie umana. La confusione e l’embricazione fra diversi livelli della comunicazione può portare a dei conflitti fra punteggiature e livelli logici (doppi vincoli) che si possono risolvere in apprendimenti, ma che possono anche automantenersi per lunghi periodi generando sofferenza nelle persone coinvolte.

La percezione di forme relazionali adeguate, salutogenetiche e autocorrettive è particolarmente legata alla messa in opera di processi prodotti dalla parte destra del cervello, come sogni, metafore, giochi, riti, arte. Essa è, in generale, guidata da una sensibilità estetica e da una intuizione olistica (il "sacro" per Bateson) che coglie la "danza di parti interagenti" (patterns e coreografie) fra processi e forme biologici (ecologia organismica e ambientale), sociali (ecologia sociale), culturali (ecologia delle idee) e i loro rispecchiamenti reciproci (meccanismi di abduzione).

La dimensione estetica e "sacrale" delle relazioni nei sistemi umani spiega la difficoltà di intervenire, ad esempio da parte di un terapeuta, senza istituire dei processi manipolativi o di controllo, ossia trasferendo su un livello analitico e di osservatore esterno dei processi generati sul piano analogico e interno al sistema di cui il terapista è parte. Secondo Bateson, è possibile facilitare certi processi, cercare di evitarne altri o riconoscere ciò che si è prodotto, ma non è "ecologico" tentare di istituire modalità di guida delle relazioni umane, per una sorta di contraddizione in termini.

L’abituale focalizzazione dei paradigmi medico-terapeutici e di quelli preventivi o "del rischio" sui bit di azione ritenuti cattivi, folli, malati, dipendenti, criminali rappresenta solo una parte di un sistema di relazioni. Questa dicotomizzazione è particolarmente insana in quanto tende a reificare le relazioni classificando una delle parti in gioco e disattivando quei potenziali di retroazione ricorsiva e autocorrezione che un’intera ecologia di caring solitamente possiedono. Essa genera inoltre una confusione di tipi logici per cui si tende a colpire un comportamento (atto criminale) con l’intento di "sanare" una classe di fenomeni (criminalità). A livello di "idee", tali pratiche tendono a mantenere una visione dicotomica che rende difficile assumere il lato oscuro "delle complementarietà cibernetiche: vita e morte, successo e fallimento, salute e patologia" (Keeney, 1985, pp. 154-155).

In base a questo frame, si può sostenere che una visione ecosistemica della salute è quella che assume come campo di analisi e intervento l’evoluzione delle forme e dei processi di mantenimento-cambiamento che si esplicano a tutti i livelli del vivente considerati nei loro aspetti mentali. L’intervento riequilibrante e quello promozionale, ossia facilitativo rispetto alle potenzialità e alle risorse autocorrettive dei sistemi viventi, possono essere attuati ponendosi all’interno di una circolazione comunicativa e introducendo differenze operturbazioni capaci di innescare un nuovo assetto o una ridefinizione di quello preesistente a diversi livelli comunicazionali: percezioni, modi di pensare, rappresentazioni sociali, regole organizzative, definizioni di contesto, dinamiche ambientali e così via. Tali apporti sono salutari allorché si traducono in apprendimenti e riescono a portare neghentropia (organizzazione) dentro un sistema relazionale.

La concezione batesoniana della salute in chiave sistemica, ha avuto un’evoluzione, che può essere vista come rappresentativa di un ampio movimento di idee che è andato estendendo la sua influenza fra gli anni ‘50 e gli anni ‘80. In essa possono essere individuati tre modelli: quello legato alla teoria dell’informazione e alla prima cibernetica che interpreta la nozione di feed-back in direzione omeostatica e l’intervento terapeutico o sociale come ripristino o rimozione del meccanismo malato o disfunzionale; quello della seconda cibernetica in cui si accentua la critica del dualismo corpo/mente e salute/malattia: l’osservatore è parte del sistema e quindi sviluppa un’epistemologia e una metodologia di intervento di tipo costruttivista e relazionale che non vuole guidare ma promuovere dei processi; nella terza fase la visione si allarga ad un olismo ecologico ed estetico che, facendo perno sulle dimensioni emozionali, relazionali e linguistiche della comunicazione nei sistemi umani, si apre alla considerazione degli aspetti simbolici, culturali, mitologici, spirituali, religiosi, poetici. Rispetto alle metodologie attive della prima fase o a quelle coevolutive della seconda, si affermano nella terza le dimensioni narrative, le tecniche di ascolto, gli orientamenti al non-fare - in senso quasi-buddhista -, la ricerca delle potenzialità creative, l’attenzione per le pratiche meditative e contemplative, le sensibilità per saper evitare degli errori logici e l’autoeducazione.

Il cambio epistemologico che la teoria sistemica ha apportato nell’ambito della salute è stato rilevante soprattutto per le scienze umane e sociali, per quelle della comunicazione e quelle della formazione: esso ha permesso, in buona misura, di affrancarsi dal predominio del paradigma bio-medico, di quello psicoindividualista e di quello socioorganicista, per elaborare un punto di vista più autonomo e critico che ha posto al centro le dinamiche relazionali dell’intersoggettività, i conflitti fra parti del mondo interno, i pattern socio-psico-somatici, le componenti emozionali e contestuali del benessere, la costruzione sociale della salute, le differenze culturali, di senso e spirituali che incidono nei vissuti, nelle pratiche, negli approcci alla cura e alla promozione della salute.

Questi apporti si sono rivelati innovativi e produttivi in campi come l’educazione e la promozione della salute, gli interventi sulle dipendenze e sulle patologie relazionali, l’umanizzazione delle cure in ambienti assistenziali, la crescita delle capacità di coping delle famiglie e delle reti, il counseling delle crisi familiari, le azioni di supporto sociale, l’empowerment e l’advocacy di gruppi deprivilegiati, la formazione psicosociale degli operatori sociali e sanitari, l’organizzazione dei servizi sociali, la definizione delle politiche di comunità, il miglioramento della vivibilità e della qualità della vita negli ambienti urbani e in molti altri settori.

Il contesto socio-culturale entro cui la teoria dei sistemi ha operato è tuttavia in rapido cambiamento: mentre gli orientamento culturali degli anni ‘70 hanno rappresentato ottimisticamente il sistema sociale in costruzione come Società del Benessere, basato sui consumi privati e l’intervento pubblico, le rappresentazioni collettive degli anni ‘90 sembrano dominate da una percezione di rischio incombente e complessità ambientale soverchiante a cui non solo le Istituzioni, ma anche molti dei meccanismi autocorrettivi e connessionisti finora operanti sembrano incapaci di fornire risposte esaustive e rassicuranti.

La percezione di insicurezza ambientale, perdita potenziale o reale di benefici e punti di riferimento, sfiducia negli altri e nel futuro, incerta costruzione della propria identità ha portato alla diffusione di atteggiamenti aggressivi, predatori, rabbiosi, difensivi, rassegnati, cinici, superficiali e a nuove forme di disagio e sofferenza in vari campi della vita sociale. Essa tuttavia indica in negativo l’esistenza di una domanda latente di fiducia, senso e qualità della vita. Tale domanda si esprime, fra l’altro, in un rilevante e crescente interesse per le questioni di benessere e malessere, agio e disagio, guarigione e terapia, promozione e prevenzione, ascolto e risposta, sicurezza e pericolo, identità e alterità, appartenenza e spaesamento, ragione e emozioni, bellezza ed estetica, credenza e spiritualità e altri temi consimili che si avverte nelle pratiche diffuse e nella comunicazione sociale.

La domanda sociale di salute in questa fase è quindi, al contempo, articolata e sfuggente, pressante e multiforme, e dunque pone nuove questioni ai professionisti della salute e agli operatori sociali, compresi quelli che partono da un frame sistemico. La sfida, oltre che pratica, è ancora una volta epistemica e teorica. Molte intuizioni incompiute dell’ultimo Bateson, fra cui quella sul panico epistemologico che sta espandendosi in questa fase a cavallo del secolo, indicano un terreno in cui il movimento sistemico non si è ancora pienamente misurato e che necessitano di un’elaborazione creativa adeguata al contesto di una società postmoderna e multiculturale.

Riferimenti bibliografici:

Ardigò A. (1997), Società e salute, Angeli, Milano.

Andolfi M. (1977), La terapia con la famiglia. Un approccio relazionale, Astrolabio, Roma.

Bateson G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano (ed. orig. New York, 1972).

- (1997), Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano (ed. orig. New York, 1991).

Bertini M. (1988), a cura, Psicologia e salute, NIS, Roma.

Campanini A., Luppi F. (1988), Servizio sociale e modello sistemico, NIS, Roma.

Donati P. (1987), a cura, Manuale di sociologia sanitaria, La Nuova Italia, Firenze.

Douglas M (1991), Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano.

Foerster von H. (1987), Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma (ed. orig. 1981).

Fruggeri L. (1997), Famiglie, NIS, Roma.

Ingrosso M. (1994), Ecologia sociale e salute, Angeli, Milano.

- (1994a), a cura, La salute come costruzione sociale, Angeli, Milano.

Keeney B.P. (1985), L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma (ed. orig. New York, 1983).

Lafaille R., Fulder S. (1993), eds, Towards a New Science of Health, Routledge, London.

Malagoli Togliatti M., Rocchietta Tofani L. (1987), Famiglie multiproblematiche. Dall’analisi all’intervento su un sistema complesso, NIS, Roma.

Manghi S. (1990), Il gatto con le ali. Ecologia della mente e pratiche sociali, Feltrinelli, Milano.

- (1997), Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Cortina, Milano.

Maturana H.R., Varela F.J. (1985), Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia (ed. orig. Dordrech, 1980).

Melucci A., Il gioco dell’io. Il cambiamento di sé in una società globale, Feltrinelli, Milano.

Mondella F. (1995), Lo spazio del corpo, lo spazio della mente, Episteme, Milano.

Morgani G. (1989), Images. Le metafore dell’organizzazione, Angeli, Milano.

Morin E. (1983), Il Metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Feltrinelli, Milano (ed. orig. Paris, 1977).

- (1988), Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze.

Onnis L. (1988), a cura, Famiglia e malattia psicosomatica. L’orientamento sistemico, NIS, Roma.

Watzlawick P. (1980), Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica, Feltrinelli, Milano.

WHO (1984), Health Promotion. A discussion document on the concept and principles, Euro, Copenhagen.

Zani B. (1995), "I contesti sociali della salute e della malattia", in Zani B. (a cura), Le dimensioni della psicologia sociale, NIS, Roma

 


SISTEMI, COMPLESSITA', CAOS E COSCIENZA

 del Prof. Demetrio P. Errigo

 

Una famiglia è un sistema perché tutti gli individui solo legati da vincoli di parentela, una nazione è un sistema di individui legati tra loro da leggi, il cosmo è un sistema regolato da leggi, il microcosmo è altrettanto un sistema regolato da leggi.

Siamo immersi in un universo di sistemi, noi stessi siamo un sistema ed il Tutto è un sistema che contiene tutti gli altri.

 

Solitamente se partiamo da un’ipotesi di legge naturale e vogliamo studiarla con un approccio analitico, ci accorgiamo che è sufficiente supporre che le variabili in campo e che le relazioni siano poche e ben definite per poter raggiungere risultati attendibili. Ne risulta un sistema “semplice” e, ordinariamente, il modello matematico fornisce equazioni di causa-effetto di tipo lineare, cioè tanta è la causa e tanto è l’effetto. Se invece siamo in presenza di un sistema con un numero di variabili ed un numero di relazioni più numeroso di quello di prima, l’approccio analitico viene questa volta applicato ad un sistema “complicato”. Abbiamo lo stesso dei risultati lineari, ma sono difficoltosi e a volte la semplificazione matematica del modello utilizzato non fornisce appieno i risultati voluti facendoci ricorrere anche a formule semiempiriche.

 

Ora siamo pronti ad affrontare il discorso nella sua totalità.

Se vogliamo studiare il Tutto nella sua maestosità o, per dirla in gergo, se desideriamo porre un’ipotesi di lavoro cosmosociologica valida per tutta la scienza naturale, la psicologia e la sociologia, dobbiamo porre moltissime variabili (naturali, psicologiche, sociologiche) da cui compaiono moltissime relazioni. Così facendo, l’approccio non potrà più essere analitico in senso stretto, cioè come lo consideravamo prima ma molto più laborioso, dovrà essere un approccio sistemico.

È solo a questo punto che si dice che siamo in presenza di un sistema complesso le cui soluzioni potranno essere a volte lineari, ma soprattutto saranno non lineari, cioè avranno soluzioni chiamate di tipo trascendente, cioè funzioni più o meno periodiche.

 

Intanto vediamo cosa vuol dire approccio sistemico. In questo campo tutte le equazioni del modello che si usa, saranno connesse tra loro, e si nota come le equazioni si rincorrano e si circolarizzano come se volessero costruire degli anelli più o meno complessi in cui qualcuno di loro va a mettere il naso sui valori delle altre e per certi aspetti ne determina la o le soluzioni.

 

Tutti sappiamo cosa sia un servofreno: se tendo a frenare il servo mi accentua la frenata: questo si chiama regolazione positiva.

Ma abbiamo anche un altro tipo di regolazione negativa o retroattiva, per esempio se la nostra auto ha il cruise (sistema automatico di mantenimento di una velocità pre-impostata), e la macchina va in discesa, accelerando, il sistema andrà a diminuire l’alimentazione, facendo rallentare la macchina e mantenendo costante la velocità impostata.

In un sistema complesso (cioè totalmente interrelazionato) la regolazione è continua di tutto su tutto ed è di tipo retroattivo.

La complessità è data pertanto dal numero di variabili e dal numero di relazioni che esistono nella realtà, ed il modello matematico che le deve simulare ne risulta talmente complicato (pardon complesso) che a volte può essere determinabile solo a tratti. In più si è notato finalmente che nessun sistema è isolato, cioè tutti i sistemi si scambiano fra loro sia materia, che informazioni, che energia. Ogni sistema quindi è in grado di variare il suo equilibrio, istante per istante, magari non più ritornando alla situazione di partenza, creandosi così un nuovo equilibrio: questo è quello che viene chiamato il caos deterministico.

I sistemi non sono più autoreferenziali ma adattivi e con memoria accrescitiva e soprattutto dissipativi: ciò è per esempio quello che si definisce un sistema autopoietico, quello umano tanto per intenderci.

 

Come facevo notare in un mio scritto: …un cambiamento di stato corrisponde ad un cambiamento di un punto-evento. Variando il suo “peso” nella ragnatela universale quindi varia anche il tensore energia-impulso che agisce su (o a causa di) quel punto. Ma c’è di più. Se una qualsiasi trasformazione avviene, a causa della ragnatela esistente tra tutti i sistemi (adiacenti o meno), essi ne vengono informati. Ciò significa che se esiste un’informazione che corre lungo gli assi di collegamento tra punti, allora una qualsiasi trasformazione, facendo variare l’entropia, farà variare anche la quantità di informazione che sarà scambiata.”.

Insomma tutti i sistemi, nella loro complessità, hanno nel loro interno zone di modificazioni che tendono a disporsi in posizioni di equilibrio dinamico, e al loro esterno influenzano o vengono influenzati cercando loro stessi nella loro complessività di adattarsi al cambiamento innescato adottando un nuovo punto di equilibrio (dinamico).

In ultima analisi, le parole “Sistema”, “Complessità” e “Caos” determinano un nuovo modo di vedere e di sentire la realtà nel suo complesso: un nuovo paradigma, l’olistico.

In effetti noi non sappiamo se il mondo è così come ce lo rappresentiamo, nella scienza o nell’arte. Il mondo si riflette in noi e noi riflettiamo, i nostri sensi ci regalano un mondo di fenomeni, ma noi non siamo certi se c’è il noumeno corrispondente e se c’è, cos’è e com’è.

L’unica speranza è che il nuovo paradigma conoscitivo ci consenta di avere una scienza a misura umana, cosmica e microcosmica talmente interconnessa da non notare più alcuna settorializzazione (frammentazione) delle conoscenze.

Un amico tempo fa mi fece notare come in un seminario di Filosofia della Scienza e della Tecnica misi in evidenza le differenze tra i verbi “rammentare” e “ricordare” e poi tra “dimenticare” (togliere dalla mente) e “scordare” (togliere dal cuore). Noi, al di là de nostri filtri sensoriali, introiettiamo dall’esterno almeno in due gradi di accettazione, quello mentale-intellettuale e quello emozionale-sentimentale; ed allo stesso modo esterniamo. Come a dire: possiamo ricordare un grande amore, ma dimenticare il suo numero di telefono.

In un linguaggio più esoterico ci possiamo riferire ai Chakra della testa e del cuore o del corpo. In un linguaggio più fisiologico possiamo riferirci alla tripartizione gnoseologica tra i nostri tre cervelli interconnessi, e poi ai due lobi anche loro interconnessi.

Fino a quando non cadrà per tutti il muro della mente bilaterale o il fenomeno gnoseologico delle due culture, o tante altre cose che ci servono da paravento conoscitivo a mascheramento della nostra ignoranza sostanziale.

Noi tutti sappiamo che “Coscienza” è l’essere presenti a se stessi con la propria consapevolezza e con la propria conoscenza, nel nostro “essere” e nel nostro “fare”. E se questo non accade, la tradizione ci insegna che ci troviamo di fronte ad un essere “stupido”.

Io sono convinto che una nuova coscientizzazione derivante da una visione globale responsabile porterà alla costruzione di un unico verbo sia per l’introiezione che per l’esternazione. Ed il nostro essere presenti, lo sarà di tutti e del “tutto”.

Insomma l’ipotesi di universo olografico e delle stringhe non è così malsana come sembra.

Tutti noi sappiamo di essere intercorrelati e che in ognuno di noi è racchiuso il tutto così come noi facciamo parte del tutto.

Ed allora al di là delle ideologie, che non sono conoscenza ma filtro selettore, dobbiamo porci nella condizione non solo di apprendere ma anche di comprendere che solo la “meraviglia” del noi e dell’al di fuori di noi e la successiva serie di atti (interni ed esterni) che possiamo esperire, ci può salvare dall’ignoranza o dalla stupidità che alcuni desidererebbero per poter salvaguardare il loro potere, qualunque esso sia.

In ultima analisi la coscienza è l’amore, l’accettazione, la compassione e la pietà per sé e per chiunque altro.